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Negare la lingua del bambino equivale a negare il bambino stesso. (Jim Cummins)


Quante volte l'italiano viene imposto come unica lingua di comunicazione a scuola?

Quante volte abbiamo sentito colleghi dire ai nostri studenti cinesi di non parlare la loro lingua nei corridoi?


Forse lo fanno con buone intenzioni, pensando di aiutarli a imparare più velocemente. Eppure, oltre a essere un approccio che porta a conseguenze negative profonde sul benessere degli studenti, è anche un errore didattico perché questa pratica spesso sortisce l'effetto contrario.


Lo studente per non sentirsi giudicato deciderà di rimanere in silenzio o esprimersi il meno possibile per minimizzare la possibilità di sbagliare o essere giudicato per la sua pronuncia. Questo ha effetti devastanti su tutto il suo repertorio linguistico, sia nella L1 che in italiano L2.


Jim Cummins, uno dei più importanti studiosi di linguistica applicata ed educazione plurilingue, ha ribadito per tutta la sua carriera l’importanza della lingua madre nell’apprendimento scolastico. Secondo lui, “negare la lingua del bambino equivale a negare il bambino stesso”.


L'importanza della lingua madre per l’identità e l'autostima

Dal punto di vista psicologico, la lingua madre è un elemento chiave per la propria identità. È il codice attraverso cui si interpreta il mondo, si costruisce il proprio pensiero e si sviluppa il senso di appartenenza. Se a scuola la lingua madre viene ignorata o rifiutata, il bambino può sentirsi alienato, con un conseguente calo dell’autostima e della motivazione.


Al contrario, valorizzare la lingua madre ha un impatto positivo sul suo benessere emotivo. Sentirsi accettati per ciò che si è, senza dover rinunciare a una parte fondamentale della propria identità, rafforza il senso di sicurezza e il desiderio di apprendere. Inoltre, permette di costruire un’identità culturale equilibrata, in cui il bambino si riconosce sia nella propria cultura d’origine sia in quella del paese in cui vive.


Lingua madre e apprendimento di una L2.

Dal punto di vista linguistico e cognitivo, mantenere e sviluppare la L1 è un grande vantaggio. Jim Cummins lo spiega attraverso la teoria dell’interdipendenza linguistica, secondo cui le abilità acquisite in una lingua facilitano l’apprendimento di altre lingue.


Per chiarire questo concetto, Cummins usa una metafora efficace:


Immaginiamo due iceberg che emergono dall’acqua. In superficie sembrano separati, ma sotto il livello del mare sono collegati dallo stesso blocco di ghiaccio. Allo stesso modo, le lingue non sono entità isolate: condividono un sistema cognitivo comune, il Common Underlying Proficiency (CUP).

Ciò significa che tutto ciò che un bambino impara nella sua lingua madre può essere trasferito nella lingua della scuola.


Questa interconnessione non riguarda solo il linguaggio, ma anche le altre materie scolastiche. Se un bambino ha sviluppato il pensiero astratto, il problem solving e la capacità di comprendere concetti complessi nella sua lingua, non dovrà reimpararli in italiano, ma semplicemente acquisire il lessico e le strutture linguistiche necessarie per esprimerli. Ad esempio, se ha già interiorizzato il concetto di “numero” o “spazio” nella sua L1, non dovrà impararlo da zero in italiano: dovrà solo apprendere le "parole nuove" per esprimerli.


Un cambiamento necessario nella scuola italiana


Alla luce di queste ricerche, è fondamentale che le scuole cambino approccio nei confronti della lingua madre degli studenti.

Accettarla, rispettarla e valorizzarla non significa ostacolare l’apprendimento dell’italiano, ma al contrario significa favorirlo.


È tempo di superare il vecchio paradigma dell’“immersione forzata” e di adottare un approccio davvero inclusivo, in cui il plurilinguismo venga finalmente visto come una risorsa e non come un problema.

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